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Centro ELIS , Roma, 20 marzo 2000 / Il senso del lavoro fra crisi occupazionale e nuove professionalità (estratto) Pierpaolo Donati , Università di Bologna |
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Il lavoro come relazione sociale: nuovi orizzonti per il XXI secolo.
4.1. Nella prospettiva sociologica, il lavoro (come occupazione) può essere definito come (i) un'attività inter/personale tesa ad uno scopo socialmente utile (ii) dalla cui realizzazione dipende l'ottenimento delle risorse di vita per chi lo compie e/o per altri a cui tale soggetto volesse distribuirle. La definizione sembra ovvia, ma non lo è affatto. Essa mette l'accento su due caratteristiche, una generale e una specifica, che vengono messe in discussione. i) C'è chi nega, in teoria o in pratica, il carattere finalizzato del lavoro, con il dire che esso è solamente una prestazione funzionale, una sorta di estrinsecazione vitalistica (questo è il nucleo dell'approccio secolarizzato). C'è chi riconosce il carattere finalistico, ma vede lo scopo solo in termini di ricompense strumentali (denaro, prestigio, ecc.), cioè adotta un'etica utilitaristica. C'è chi, per contro, riconosce che il lavoro è azione umana, e quindi fa ricorso ad un'etica non utilitaristica (questo è il nucleo dell'approccio umanistico). Quest'ultimo ritiene che, in senso proprio, l'etica cominci se, là dove e nel momento in cui l'essere umano concepisce il proprio agire - e quindi il lavoro - come compito (Utz 1998). La constatazione meramente empirica che molte persone -la maggioranza, stando ai sondaggi di opinione (si vedano i rapporti dell'International Social Survey Programme: ISSP 1997) - non abbia coscienza del carattere etico del lavoro, ma lo consideri solo per l'utilità che ha, non smentisce la definizione sociologica di lavoro che ne ho dato. Basterebbe, per questo, analizzare sociologicamente la vita della gente un po' più in profondità. Lo si constata per esempio nelle ricerche sugli effetti della disoccupazione, che mettono in luce il dramma delle persone disoccupate proprio come spegnimento della loro vita morale (si vedano le indagini di Kelvin e Jarrett 1985, Kieselbach 1997). ii) La caratteristica che distingue il lavoro, fra tutte le relazioni umane finalizzate, ossia quella specifica che ne guida il senso (distinzione-guida) è che dall'attività dipenda il fatto di ottenere le risorse necessarie per vivere. Giacché, se così non fosse, l'attività non sarebbe un lavoro, ma un altro tipo di relazione. Sinora c'è stata una connessione diretta fra attività di lavoro e risorse ottenute, direttamente nei rapporti di mercato, per quanto regolati dal sistema politico e canalizzati da organizzazioni collettive, come quelle sindacali. Il fatto nuovo è che la connessione è sempre meno diretta (sul mercato), e diventa più indiretta, cioè mediata da una terza parte. Una terza parte assicura l'ottenimento delle risorse per vivere, a certe condizioni. Negli ultimi decenni, il ruolo di questa terza parte è stato assunto dal welfare state, che però ha assorbito in sé troppe funzioni di garanzia e mediazione, ha generato effetti perversi, e oggi ha problemi di gestione. Potrebbero esservi altre agenzie, meccanismi o relazioni che assumano questo ruolo ? Io credo che, precisamente su questo punto, stiamo assistendo alla nascita di una nuova configurazione societaria. Il lavoro non può essere slegato dal suo carattere finalizzato a ottenere quanto è necessario per vivere, ma la connessione può essere mediata da nuovi sistemi di relazioni sociali che riconfigurino la libertà del lavoro da un lato e la sicurezza di vita dall'altro attraverso nuovi soggetti associativi diversi dallo Stato. Non penso alle corporazioni, di vecchia o nuova concezione, ma a reti di produttori, ed eventualmente di produttori e consumatori o clienti, "associati" secondo varie modalità. La mia tesi è che l'età dopo-moderna tenda a mettere sempre più l'accento sugli aspetti relazionali del lavoro, sia quelli - per così dire - "esterni" (visibili nelle relazioni di scambio), sia quelli - per così dire - "interni", riguardanti il fatto che il fine dell'attività e il modo di svolgere il lavoro sono socialmente mediati attraverso la soggettività delle singole persone (e sono pertanto assai più difficili da osservare). Per esporre questa visione, mi avvalgo di due argomenti. Il primo riguarda le trasformazioni empiriche del lavoro come relazione sociale. Il secondo riguarda l'attuale morfogenesi delle professioni. 4.2. In via generale, il lavoro si sta trasformando perché i suoi confini vengono spostati e intrecciati con attività che non rientrano nella definizione moderna di lavoro. Andiamo verso un tipo di società in cui co-esisteranno una pluralità di concezioni teoriche e di culture pratiche del lavoro, in competizione fra loro. Esse possono essere distinte e classificate in base ai significati che sottolineano: il lavoro come valore di scambio (merce), come attività che si legittima per i propri scopi non condizionati dal mercato, come relazione comunicativa di servizio reciproco, come azione virtuosa che fa fronte ai bisogni umani primari (fig. 4). In quest'ultima accezione si rivela un certo processo di reincantamento (re-enchantment) culturale e talora anche religioso. Letti in senso analitico, questi significati corrispondono a quattro dimensioni fondamentali del lavoro come relazione sociale. Dovunque e comunque il lavoro implica - anche solo in modo latente - un valore di scambio (A), una finalità intrinseca extra- economica (G), una forma di comunicazione per servizi reciproci (I), il corrispondere a bisogni umani primari secondo valori d'uso (L). Letti in senso empirico, questi significati possono portare a individuare ambiti materiali in cui domina ciascuno dei quattro codici simbolici. Ad esempio: A) lavoro di mercato, G) lavoro civico (obbligazioni civiche), I) lavoro in reti di tipo associativo (terzo settore, privato sociale, economia solidale), L) lavoro di tipo domestico e nelle reti informali. Fig. 4- Differenziazione dei significati del lavoro. |
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