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Centro ELIS , Roma, 20 marzo 2000 / Il senso del lavoro fra crisi occupazionale e nuove professionalità (estratto) Pierpaolo Donati , Università di Bologna |
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4.3. Il secondo argomento illustra queste trasformazioni come morfogenesi delle occupazioni e delle professioni. Un sintetico excursus sui cambiamenti delle occupazioni (occupations), dei posti di lavoro (jobs), delle professioni (professions), mostra che oggi: (A) nel mercato, (G) nelle occupazioni civiche, (I) nei servizi e terzo settore (economia delle relazioni), (L) nelle reti informali, vi è una esplosione di nuovi profili e stili lavorativi che le regolazioni giuridiche esistenti non riescono a controllare e che gli stessi sindacati e strutture di neo-corporativismo non riescono a gestire (Archibugi e Koenig-Archibugi 1998; Chiesi 1997). Pochi vedono in questi processi l'emergere di una nuova relazionalità sociale. Le culture del lavoro sono ancora in gran parte condizionate da un vecchio approccio che tende a definire il lavoro in base ai diversi contenuti materiali e formali delle prestazioni funzionali, mentre vi è una sostanziale mancanza di visione relazionale del lavoro. La relazionalità è, tutt'al più, intravvista in quella parte della cosiddetta economia sociale che produce relazioni di servizio o care. Questi processi hanno fatto emergere le teorie della fine del lavoro (come employment) e si è parlato di un passaggio dallo status di "impiego" allo status di "attivo" (Boissonat Report 1995; Priestly 1995; Gaudu 1995). Un tale shift appare a molti come impraticabile. Ciò che sembra corretto e possibile è generalizzare il concetto di lavoro da impiego (employment) a lavoro inteso come attività lavorativa (work), che è tale perché si riferisce ad una azione obbligatoria per contratto, sia tale contratto assunto volontariamente sia esso conseguente ad un ruolo sociale vincolante per la persona, e quindi mantenendo il concetto di lavoro distinto da quello di semplice attività (activity) la quale non implica obblighi giuridici relativi ad un contratto (EU Report 1998, paragrafi 205-209). L'approccio relazionale concorda con questo punto di vista ad una condizione fondamentale: che il contratto di lavoro sia l'espressione regolativa di una relazione che non è meramente strumentale, ma anche comunitaria. Sempre più il lavoro si riferisce a compiti di mediazione e circuiti di scambio che coinvolgono il bene comune (come bene relazionale) di una rete di produttori e consumatori i quali coprono ruoli sempre più interattivi e perfino reversibili. 4.4. Il limite insuperabile delle etiche moderne (borghese e marxista, liberale e socialista), e dunque il limite strutturale delle soluzioni lib/lab oggi tanto in voga, sta nel fatto che esse cercano il senso del lavoro fuori dei suoi contenuti relazionali o almeno non vedono tutta la ricchezza umana del lavoro come relazione sociale. Non vedono come la categoria del lavoro sia centrale non appena si ridefinisca il lavoro non più come rapporto di sfruttamento con la natura, o nei termini del rapporto fra servo e padrone, oppure fra operaio e capitalista, oppure fra lavoratore e datore di lavoro, ma come relazione di mediazione e scambio complesso fra persone umane. L'Occidente ha tracciato, fin da Aristotele, una distinzione funesta e dagli esiti perversi: quella fra l'agire dell'uomo come bios practicós e l'agire umano come bios teoreticós, intendendo il primo come lavoro (labour, faticoso e necessitato) e il secondo come attività libera e non condizionata (action, come la chiama Hannah Arendt). Marx trae tutte le conseguenze da questa separazione, cresciuta nel corso dei secoli, e traccia la sua antitesi, quella fra lavoro alienato e attività vitale dell'uomo (menschliche Lebenstätigkeit), attività cosciente (bewuste Tätigkeit) o libera (freie Tätigkeit). Su questa base, per mera antitesi dialettica, sviluppa la sua teoria della fine del lavoro e della società del lavoro. Hannah Arendt (1964) trae da questo pensiero l'idea che noi viviamo in una società del lavoro alla quale il lavoro potrebbe venire a mancare. Ma, così pensando, anche la Arendt rimane prigioniera delle categorie del pensiero greco, e dà corda all'idea che si possa vivere in una società senza lavoro. In un tono simpatetico, Dominique Méda (1965) sostiene che occorre "disincantare" il lavoro, nel senso di toglierli la carica simbolica che la modernità gli ha attaccato (in quanto strumento di progresso e sinonimo di essenza umana), e ridurlo a una delle tante componenti del tempo di vita individuale e collettivo. In realtà, le distinzioni aristoteliche e le antitesi marxiane, rispetto alle quali si è definito - per negazione - gran parte del pensiero liberale, sono ormai alle nostre spalle. Queste categorie di pensiero perdono di significato nel momento in cui pensiamo il lavoro come relazione sociale che implica nello stesso tempo, e interattivamente, vita activa e vita contemplativa, bios practicós e bios teoreticós, dal momento che coinvolge sempre più tutta la persona umana. Anche l'antitesi di Kant fra agire autonomo e agire eteronomo scompare, perché nella relazione di lavoro (dovremmo dire: nel lavoro come relazione sociale) c'è l'uno e l'altro, senza che possano essere separati, né teoreticamente né praticamente. Liberare il lavoro significa vederlo come "azione fra" soggetti secondo la sua propria distinzione direttrice, che è quella dell'apertura di una intenzionalità originaria, inter- soggettivamente qualificata, finalizzata alla produzione di un bene da cui dipende la vita di coloro che vi hanno parte. Il punto di svolta sta nel fatto che tale distinzione-guida non è più quella dell'ottenimento di un salario di sopravvivenza o la produzione di un bene da rendere merce di scambio, ma è quella di produrre un bene da cui dipendono insieme, per la loro vita, produttori e consumatori. Ciò avviene di fatto ovunque e comunque, ma diventa più evidente laddove è possibile riflettere sul carattere socialmente mediativo del lavoro e ancor più laddove è possibile "finalizzare" il lavoro. Pensato e vissuto in questo modo, il lavoro diventa non soltanto un bene meritorio (merit want, cioè un bene degno di essere perseguito come diritto sociale di cittadinanza), ma anche e soprattutto un "bene relazionale" (cioè un bene che è producivile e fruibile solo assieme da chi vi è interessato: Donati 2000, cap. 2). Anzi diventa meritevole di tutela pubblica proprio perché persegue un bene relazionale. Diventa tale non solo perché il sistema delle relazioni per l'attività che è definita come lavoro ne condiziona il significato, ma perché il lavoro viene a consistere di ("è fatto di") relazioni sociali da cui tutti coloro che sono coinvolti dipendono. 4.5. Se partiamo
dall'idea che il lavoro è relazione sociale, possiamo uscire dal quadro
concettuale che ha imprigionato la cultura occidentale, nella quale
il lavoro è stato definito come prestazione strumentale che è oggetto
di appropriazione e/o di contratto entro la dialettica servo/padrone,
proletario/borghese, lavoratore/datore di lavoro. Possiamo allora
vedere il lavoro come attività in sistemi di scambio differenziati
fra loro, che hanno (o potrebbero avere) forme differenti di moneta
(currency), con differenti regole di equivalenza, commutazione
e redistribuzione. Quello che siamo soliti chiamare "denaro"
(money) non è che una delle possibili forme di titolo
di credito per l'acquisizione di beni e servizi. La differenziazione
della società comporta la nascita di sfere differenziate con propri
codici simbolici di transazione, dunque con proprie "monete"
e proprie regole di scambio. Tali sfere non sono necessariamente separate,
ma possono (o potrebbero) a loro volta anche associarsi o convenzionarsi
fra loro tramite ulteriori forme di scambio, che possano rendere accessibili
beni e servizi a tutti i consociati attraverso forme di convertibilità
delle singole monete che vigono in ciascuna sfera relazionale, dove
il lavoro assume un proprio modo di essere svolto, organizzato e valorizzato.
L'idea del Reddito Minimo di Cittadinanza non solamente è compatibile
con questa visione delle cose, ma la favorisce. Infatti, supposto
che gli individui possano godere di un reddito minimo in moneta corrente
(cash), essi potrebbero aggiungere a tale reddito l'insieme
dei "titoli di credito" (altre forme di denaro) che ciascuno
ottiene con la sua attività in varie sfere di vita e lavoro, sotto
forma di accesso a benefici, beni e servizi non monetarizzati e non
monetizzabili (in termini di currency). Il processo di passaggio a
questa nuova economia del lavoro è favorito dal fatto che, nelle sfere
di scambio che si regolano sulla base delle attività diverse dal lavoro
in senso tradizionale (l'occupazione che è fonte principale di reddito),
viene rivalutata ed enormemente potenziata la relazione sociale che
il lavoro in senso lato esprime, e che è contenuta in esso. Qui, la
relazione diventa un bene in sé ed una dimensione comparabile con
altre dimensioni in termini di utilità e di "denaro" (titoli
di credito) che fornisce. Questa prospettiva può essere criticata
e contrastata da una obiezione fondamentale, che esprime ancora tutta
la carica astrattiva e meccanica della modernità. L'obiezione dice
che il denaro monetario (il titolo di credito espresso in currency)
è di gran lunga più vantaggioso di tutte le altre forme di "denaro"
perché possiede le qualità dell'astrazione, cioè è fungibile con altri
beni senza essere subordinato a considerazioni non economiche, anzi
opera proprio alla condizione di poter essere trasferito solo se mantiene
o accresce le possibilità di essere impiegato senza alcun vincolo
extra-economico, cioè se accresce le condizioni di contingenza comunicativa
(come si esprime Niklas Luhmann). Ma, a mio parere, l'obiezione non
è dirimente. Possiamo mantenere i vantaggi del "denaro"
come mezzo simbolico generalizzato di interscambio, prodotto come
universale evolutivo dalla modernità, dando vita a nuovi sistemi di
scambio, diversi dal mercato tipicamente capitalistico. E ciò per
alcuni buoni motivi: Torna a Parte 1 |
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