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Associazione Centro ELIS , Roma, 20 marzo 2000 /
Il senso del lavoro fra crisi occupazionale e nuove professionalità (estratto) Pierpaolo Donati , Università di Bologna

3. Cambiamenti attuali nei significati del lavoro e loro impatto sulla riorganizzazione della società.

3.1. La modernità ha creato la disoccupazione attraverso una specifica cultura secolarizzata-strumentale del lavoro e una struttura sociale correlata. Vi è una corrispondenza piuttosto stretta fra il concepire il lavoro come prestazione dell'individuo astratto (che può essere comperata e venduta su un mercato formalmente libero) e il considerare la disoccupazione come una necessità funzionale inerente alla divisione del lavoro (stratificazione sociale). Noi assistiamo oggi alla crisi di questo assetto, benché esso sia ben lungi dall'essere stato superato. E ci chiediamo se i problemi storicamente generati in tal modo potranno essere affrontati ancora con gli strumenti culturali e strutturali della modernità oppure no. La risposta non può che essere complessa, ma, in buona sostanza, ritengo che sia tendenzialmente negativa. Siamo in presenza di nuove interazioni fra modelli culturali e fra strutture organizzative, mediate dalle interazioni fra agenti-attori sociali, che cambiano completamente lo scenario del senso e delle funzioni del lavoro, e quindi della disoccupazione. Gli studi sociali mostrano tre grandi processi in atto: la fine della divisione tayloriana-fordista del lavoro sociale, la fine delle metafore culturali che avevano sostenuto il lavoro industriale, l'emergere di una nuova soggettività del lavoro. Vediamoli in grande sintesi. Lo schema di analisi che ho in mente si rifà a quello della morfostasi/morfogenesi (Archer 1995) e si basa su tre grandi processi: i) le modificazioni delle strutture sociali del lavoro, ii) le modificazioni delle culture del lavoro, iii) le interazioni fra attori-agenti che portano le strutture (sociali e culturali) a nuove configurazioni. Questi cambiamenti avvengono in tre fasi temporali successive (T1), (T2), (T3) analiticamente ed empiricamente distinte. Fra i processi i), ii), iii) non ci sono, né possono esserci, rapporti deterministici. Però esistono influenze reciproche. i) Il processo di morfogenesi delle strutture lavorative nella organizzazione industriale (divisione sociale del lavoro, secondo la terminologia marxiana) e nella società (divisione del lavoro sociale, secondo la terminologia durkheimiana) avviene grossomodo così:
(T1) data una struttura del sistema economico, micro (aziendale) e macro (societario), modellata sull'organizzazione tayloriana e fordista, (T2) attraverso interazioni strutturali fra i ruoli e i sistemi organizzativi,
(T3) si passa a nuovi ruoli lavorativi e intrecci organizzativi, e quindi a nuove professioni, che diventano sempre meno gerarchici, dipendenti, specializzati, rigidi, e sempre più circolari, autonomi, adattivi, flessibili. La divisione sociale del lavoro che ne risulta non è più polarizzata fra capitalista e proletario (come ai tempi della prima rivoluzione industriale), ovvero stratificata fra colletti bianchi e blu (come ai tempi della grande organizzazione), ma assume un carattere reticolare, fatto di intrecci e interdipendenze fra ruoli lavorativi che sono relativamente più autonomi e allo stesso tempo più interconnessi che nel passato, all'interno di una vasta rete costituita da comunicazioni e transazioni altamente "de-centrate".
ii) Le modificazioni culturali seguono un processo morfogenetico in buona misura analogo, in quanto:
(T1) partendo da un sistema culturale generale ispirato alla metafora della macchina (Rabinbach 1998),
(T2) attraverso interazioni con nuovi modelli culturali che si ispirano a valori, rappresentazioni e metafore non macchiniche, che utilizzano un linguaggio simbolico meno strumentale e più espressivo,
(T3) si passa a nuove modalità di intendere sia il senso del lavoro (come portatore e risolutore di bisogni soggettivi) sia le identità professionali (più frammentate ma anche più autonome). La cultura moderna perde il suo "centro" e si fa altamente "dis-locata" (Featherstone 1995) e ciò si riflette sul mondo del lavoro. Se la sfera privata (come quella della famiglia e dei mondi vitali) si de-istituzionalizza e si frammenta, questo ha enormi ripercussioni anche sulle istituzioni del lavoro. Il lavoro si generalizza e si differenzia: adesso il termine generico di lavoro (work) comprende sia l'impiego (employment) sia l'occupazione (occupation, intesa come professional activity) (EU Report 1998, p. 45).
iii) Come mutano gli agenti-attori in questi processi di morfogenesi strutturale e culturale ? Le indagini sulla soddisfazione personale e sul senso soggettivo del lavoro rivelano come gli agenti-attori modifichino le strutture e i patterns culturali attraverso il loro libero agire condizionato. In generale, si può dire che:
(T1) nella situazione di partenza, gli agenti-attori sono inseriti in un sistema industrialistico che ne condiziona fortemente valori, desideri, aspettative in senso "meccanico",
(T2) attraverso le loro interazioni, gli agenti-attori creano nuovi relazionamenti più competitivi, liberi e partecipativi,
(T3) e quindi si passa ad una situazione in cui gli agenti-attori sono decisamente più esigenti e ri-orientati rispetto all'assetto precedente; l'agente-attore è meno vincolato di un tempo, più mobile e allo stesso tempo più insicuro, più inter-attivo, più orientato alla qualità di vita e alla qualità del lavoro, del prodotto e del consumo. Trasformazioni oggettive e trasformazioni soggettive del lavoro, a livello micro (aziendale) così come a livello macro (sistema economico), interagiscono fra loro e cambiano le caratteristiche quantitative e qualitative delle attività lavorative (Perret 1995). Gli orientamenti, gli atteggiamenti e le aspettative si trasformano in almeno tre direzioni fondamentali:
i) crescono le preferenze per il lavoro autonomo e a-tipico, oppure, laddove il lavoro è dipendente, aumentano le esigenze di un'autonomia più ampia, anche se ciò comporta - di fatto - una maggiore inter-dipendenza, e sovente contiene il pericolo (o maschera l'esistenza di) nuove dipendenze;
ii) crescono le aspettative per un lavoro più creativo;
iii) crescono le preferenze per un rapporto formazione-lavoro e vita-lavoro più equilibrato nei tempi e nelle transazioni (con minori asimmetrie), e con passaggi fra l'una e l'altro più reversibili e meno traumatici. Il lavoro, da prestazione specialistica funzionale alla mera produzione, si avvicina maggiormente ad un paradigma di azione, soggettivamente intenzionata, avente una valenza sociale. In breve, la morfogenesi del lavoro esprime delle tendenze che portano il lavoro nelle seguenti direzioni: da salariato ad autonomo; da astratto a concreto; da rigido a flessibile; da strumentale a espressivo; da utile individualmente a utile socialmente; da misurato in termini di tempo quantitativo a misurato in termini di tempo qualitativo. Il lavoro non trae più il suo valore dal monte-ore in cui si esercita (come nell'epoca manifatturiera-industriale di Marx), ma dalla qualità umana che incorpora (qualità del lavoratore e del prodotto, inclusa la perfezione tecnica), e dunque da un tempo qualitativo inteso come attenzione, creatività, sviluppo delle capacità e delle sensibilità umane. Certamente il tempo quantitativo viene ridotto sia a causa dei processi di automazione, sia allo scopo di poterlo distribuire fra più soggetti. Ma il tempo quantitativo si riduce soprattutto perché il valore del lavoro dipende sempre di più dal modo di vivere il tempo da parte del soggetto che lo svolge, rispetto alle condizioni del processo lavorativo e all'utilizzazione del prodotto finale. Nell'economia dell'informazione e dei servizi, emerge una nuova "soggettività del lavoro", nel senso che il lavoro diventa protagonista non già di una società salariata, proletarizzata, passivizzata, assistita, ma di una società di produttori-e-consumatori dotati di più elevate esigenze soggettive di auto-realizzazione e di incidenza sui processi economici. Il criterio-guida di questi cambiamenti sta nel configurare il lavoro in modo tale da ottenere prodotti qualitativamente migliori sotto molti aspetti rilevanti, sia dal lato di chi lavora, sia dal lato di chi utilizza il prodotto del lavoro. Sotto molti aspetti, si fa strada una nuova antropologia del lavoro, che mette in sinergia le dimensioni immateriali (lavoro intellettuale) e le dimensioni pratiche (lavoro manuale), le dimensioni dirigenziali ed esecutive, fra le quali si instaura una interazione circolare sconosciuta alle epoche precedenti. Il lavoro può essere più orientato alla globalità della persona umana, come non era possibile fare (né era socialmente richiesto) in precedenza.

3.3. Gli attuali processi di morfogenesi del lavoro hanno enormi riflessi sull'organizzazione sociale più generale, e in particolare provocano (fig. 2): - la de-istituzionalizzazione dei percorsi di vita (professionale e non professionale) che in precedenza si conformavano alla sequenza: formazione ! lavoro ! pensionamento; diventano possibili periodi alternati, nuove interazioni e reversibilità tra formazione, occupazione e tempo non lavorativo; il fenomeno esalta la diversità delle occupazioni, rende più incerti i percorsi e più critiche le fasi di transizione, ma costituisce anche un pool di nuovi significati e opportunità di lavoro; il lavoro richiede ora più spirito imprenditoriale personale e una maggiore capacità di gestione del rischio; - la fine del "welfare state lavoristico", cioè del modello di Stato sociale che aveva nel lavoro il referente-base per l'accesso alle istituzioni del benessere sociale; si deve pensare ad un progressivo distacco fra lavoro e garanzie relative ai diritti umani e sociali (Martini 1999); - la fine di una visione del lavoratore come individuo di un collettivo, e l'emergenza di una visione del lavoratore quale soggetto personale di formazioni sociali reticolari; dal linguaggio dei bisogni si passa a quello dei diritti-doveri umani del lavoratore. La triangolazione fra occupazione, percorsi di vita (professionali e non) e diritti di welfare tipica dell'assetto industriale viene radicalmente modificata. Nel nuovo assetto questi tre poli devono co-rispondere non più al primato (funzionale) del lavoro, ma ai diritti-doveri del soggetto umano. L'esigenza fondamentale diventa quella di "personalizzare la persona" del lavoratore (e quindi le libertà e responsabilità personali, con i rischi annessi). Se c'è un significato autenticamente umano nel bisogno crescente di personalizzare il lavoro, questo significato è da vedersi nelle nuove relazioni (input-output e trade offs) fra queste quattro polarità: lavoro, percorsi di vita, welfare, persona umana (fig. 2). La dimensione strumentale (A) non è più il criterio-guida che dà senso e normazione alle altre relazioni, ma deve esso stesso mettersi in relazione al modello culturale del soggetto lavoratore (L), che assume un ruolo-guida nell'assetto post-fordista della società. Più in generale, ogni termine del discorso assume un carattere relazionale. Il link lavoro-welfare, ad esempio, cambia perché cambiano le relazioni fra gli altri termini del discorso, per esempio fra la definizione di lavoratore e quella di percorsi di vita. Fig. 2- La vecchia e nuova configurazione delle relazioni fra lavoro e organizzazione sociale.

3.4. Come muta, allora, il senso odierno della disoccupazione e i modi attraverso cui i sistemi sociali e culturali cercano di farvi fronte ? La disoccupazione assume molti volti e molti significati. La fig. 2 può costituire una mappa per indagare questi significati: si può definire la disoccupazione in riferimento a ciascuno dei quattro poli (A,G,I,L), cioè disoccupazione rispettivamente come mancanza di
a) Innanzitutto, bisogna distinguere fra disoccupazione come mancanza di lavoro dovuta a costrizioni esterne del tutto involontarie (ad esempio a causa di licenziamento) oppure in quanto dovuta ad esigenze soggettive del lavoratore in una delle transizioni di vita o delle transazioni fra lavoro e altre attività (sempre, comunque, con carattere involontario). Le raccolte di dati statistici ufficiali non sono ancora adeguate a cogliere queste distinzioni. Si tratta di forme diverse di disoccupazione che richiedono valutazioni e interventi differenziati.
b) Poi bisogna distinguere fra il vissuto soggettivo della disoccupazione (il sentirsi esclusi dal lavoro e le conseguenze sociali di ciò) e il vissuto collettivo (ovvero la rappresentazione collettiva) della disoccupazione: come sono culturalmente definiti i disoccupati ? Un tempo erano visti come "oziosi" e "poveri non meritevoli" (questa caratteristica è ancora forte nei paesi di cultura protestante). Oggi siamo più inclini non già a disprezzare la vittima, ma ad averne pietà oppure ad elaborare nuovi diritti, collegati alle diverse situazioni di disoccupazione (corsi di riqualificazione professionale, servizi di counselling professionale, assegni di sostegno temporaneo al reddito, ecc.). Agli effetti del significato del lavoro, decisivo è se questi diritti vengono riconosciuti come una graziosa concessione dello Stato sociale oppure invece se, seguendo il principio di sussidiarietà, rappresentano il frutto di una matura società civile che li elabora e li gestisce in proprio. In ogni caso, dobbiamo distinguere fra il disoccupato in senso stretto (involontario) e chi non ha lavoro in quanto lo rifiuta (si autoesclude dal mondo del lavoro, come i barboni o homeless volontari, ecc.) e con ciò si sottrae ai diritti-doveri di solidarietà sociale. Ancora poco sappiamo delle cosiddette "culture del non-lavoro".
c) Poiché, in buona parte dei Paesi industrialmente avanzati, la disoccupazione non è più sinonimo di povertà, bisogna distinguere fra i disoccupati poveri e i disoccupati non poveri, perché povertà e disoccupazione sono il risultato di condizioni e percorsi di vita differenti. In che modo e misura la configurazione dei sistemi finalizzati a combattere la disoccupazione (fig. 3) tiene conto di queste distinzioni ? Si direbbe ancora abbastanza poco, per quanto siano in atto ricerche le quali tentano di selezionare la figura del "(vero) disoccupato a rischio", cioè a rischio di esclusione sociale . Siamo interessati, in particolare a capire il ruolo della cultura (significati del lavoro e della disoccupazione) nelle modalità di combatterla. Fig. 3- I sistemi di lotta alla disoccupazione: elementi analitici (e, fra parentesi, empirici).

I rimedi alla disoccupazione: a. possono essere tutti interni a ciascun sotto-sistema (A,G,I,L): per esempio si può affidare tutto alle politiche pubbliche (G) oppure al mercato (A), oppure puntare su norme di scambio sociale (I) o sull'enforcement di certi stili di vita (L); tale via è la meno valida perché si affida ad una sola dimensione; b. possono combinare due o più di questi sotto-sistemi; di fatto, le soluzioni oggi prevalenti prevedono regolazioni politiche del mercato alla ricerca di un bilanciamento fra garanzie sociali e libertà di iniziativa; queste soluzioni hanno una validità limitata, perché non mutano i presupposti normativi e culturali che sono all'origine della disoccupazione; c. possono tener conto di tutte queste dimensioni, e delle loro relazioni; nel caso più completo, le regolazioni politiche del mercato fanno riferimento a norme di scambio fra i soggetti del lavoro e a modelli culturali negli stili di lavoro e di vita; queste sono le soluzioni più valide. In linea di principio, osservare la disoccupazione come fatto culturale che deriva dall'adozione di certi stili di vita e valutarla come prodotto di particolari regole allocative negli scambi sociali può essere altrettanto, se non più istruttivo che pensarla semplicemente come esigenza funzionale del mercato o come fallimento del sistema di governo politico. 3.5. Si discute molto circa l'esistenza o meno di un universale "diritto al lavoro" (Archer, Malinvaud eds. 1998). Esso è menzionato nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo proclamata nel 1948 dall'ONU ("Ognuno ha diritto a un lavoro, a scegliere liberamente la sua occupazione, a condizioni di lavoro giuste e vantaggiose, e ad essere protetto dalla disoccupazione") e parimenti in molte Costituzioni nazionali e trattati internazionali. Ma la domanda "esiste un diritto al lavoro ?" solleva ancora molti dubbi e perplessità. Jon Elster (1988) ha dato voce alla tesi secondo cui non esiste e non può esistere un "diritto al lavoro" come diritto positivo. Il suo argomento è che, per dimostrare che un bene dovrebbe essere dato come diritto, bisognerebbe dimostrare che è individualmente possibile farlo e che questo bene è tanto importante da avere la priorità su altri diritti, ad esso contrapposti, che potrebbero essere creati. Il ragionamento che egli utilizza per verificare questa possibilità parte da alcune premesse restrittive. Primo, che i diritti effettivi sono solo quelli legali prodotti da procedure decisionali democratiche (Elster esclude i diritti naturali umani), e in concreto il diritto al lavoro è un problema di intersezione fra teoria democratica e teoria dello Stato assistenziale. Secondo, che il diritto al lavoro può essere giustificato solo in base alla dimostrazione che esso ha un valore prioritario diverso da quello del diritto ad avere un reddito, per il fatto che fornisce vantaggi e risponde a bisogni che vengono prima del semplice reddito, come la stima di sé e degli altri, contatti sociali necessari per l'integrazione sociale, una strutturazione non alienante della vita quotidiana, e l'autorealizzazione che è richiesta dalla natura umana. Sulla base di queste assunzioni, Elster argomenta che: primo, il diritto al lavoro non può essere un diritto legale (imposto per legge) perché ciò non è compatibile con il mercato, basato sui contratti fra individui; in breve, l'argomento è che la democrazia non può essere ridotta a Stato assistenziale; secondo, a suo avviso le indagini empiriche dicono che la natura umana si adatta tanto al lavoro quanto al non-lavoro, e dunque che i vantaggi primari invocati per giustificare il diritto (stima di sé, integrazione sociale, ecc.) non sono necessariamente assicurati dal lavoro. La sua conclusione è che "il diritto al lavoro che si potrebbe creare non è un diritto che valga la pena di avere". Personalmente ritengo che questa posizione sia assai discutibile. Si può essere d'accordo con Elster sul fatto che, concettualmente e praticamente, il diritto al lavoro non è dello stesso genere dei diritti di welfare . Si tratta certamente, in primo luogo, di un diritto morale. Però, il fatto che sia primariamente morale non significa né che sia astratto, né che non possa essere tradotto in misure economiche e politiche, quindi anche in norme giuridiche. Il fatto che sia un diritto primariamente morale non significa che non vi siano soggetti concreti che dovrebbero osservarlo e farlo osservare. Significa invece, e propriamente, che si tratta di un diritto umano nel senso sociologico del termine. Alla luce del mio schema (fig. 3), il limite dell'argomentazione di Elster sta nel fatto che egli cerca il rimedio alla disoccupazione solo con strumenti economici (A) e politico- giuridici (G), prescindendo completamente dai problemi sociali di giustizia (I) e dai modelli culturali, dagli stili di vita e in ultima analisi dai diritti umani (L), che vengono resi residuali e puramente derivati dalle esigenze economiche e politico-giuridiche. Ma, evidentemente, i diritti umani non operano da soli. Essi sono dei referenti per le altre componenti dei sistemi di lotta alla disoccupazione, e costituiscono dunque solo un elemento, che deve essere combinato con le soluzioni negli altri sotto-sistemi. Sotto questa luce, diventa allora anche più chiaro che sarebbe opportuno parlare di un "dovere di tutti i soggetti sociali" (imprese, Stato, ecc.) ad assicurare le condizioni che valorizzano le attività di lavoro, invece che parlare di un "diritto (soggettivo) al lavoro" come diritto astratto che non ha un concreto referente empirico responsabile di garantirlo. Così come non si può parlare di un "diritto soggettivo alla salute", ma piuttosto di un dovere da parte della società di assicurare tutte le condizioni ambientali e i servizi sanitari necessari per combattere la mancanza di salute. Parlare di un diritto al lavoro implica riconoscere un dovere dei soggetti sociali a valorizzare tutte le relazioni che creano lavoro e non solo a regolarne gli effetti (dobbiamo ancora comprendere come si possa fare una regolazione promozionale di tutte le forme di lavoro). E' qui che ritorna in campo il cleavage fra concezioni secolarizzate e concezioni umanistiche del lavoro. Ci si deve chiedere se il sistema del mercato del lavoro possa essere "finalizzato" a valori e diritti umani, oppure debba essere lasciato alle logiche evoluzionistiche interne al sistema economico. a) La visione adattativa (secolarizzata) vede il lavoro come uno strumento per obiettivi che, pur potendo includere finalità meta-economiche (come la coesione sociale), sono tuttavia valutati in modo economico. Anche quando si parla di modelli culturali riferiti alla persona e ai diritti umani, essi sono interpretati economicamente. In questa linea, il lavoro è solo un'espressione dell'energia umana, che può e deve essere resa più efficiente con gli strumenti più adatti, e può tuttavia essere anche evitato se un individuo è proprietario di un patrimonio o di benefici sufficienti per vivere senza lavorare. Gran parte delle logiche regolative del lavoro e di lotta alla disoccupazione seguono un modello lib/lab (Donati 1998) di compromesso fra libertà e giustizia (o sicurezza) sociale che ha come obiettivo-guida una ulteriore modernizzazione del lavoro (incluse le forme di lavoro cosiddetto nero, sommerso, grigio, informale e spesso non legale). E' l'apoteosi del neo-funzionalismo: "A l'avenir, une capacité d'adaptation accrue sera la clé du succés" (Commission Européenne 1998, p. 7). Ma che cosa significa "capacità di adattamento" ? Quando il modello lib/lab cerca di tener conto del senso del lavoro, ciò a cui si guarda sono ancora e sempre i meccanismi economici (regole del mercato) e politici (interventi del welfare state), cosicché il discorso sui significati del lavoro scompare a livello delle soluzioni proposte come rimedi della disoccupazione. Vengono coniati nuovi slogan, che non a caso hanno il carattere di ossìmori, come quello di "rigidità flessibile" (coniato da Ronald Dore in riferimento al Giappone), o contrappunti al diritto al lavoro come il "diritto all'ozio" (Lafargue e Russel) o "diritto all'ozio attivo" (Domenico De Masi). Il fatto è che l'approccio secolarizzato non sa bene quale senso umano dare al lavoro. Cosicché questa visione finisce così per dare al lavoro il carattere di un mero obbligo sociale (il caso inglese e il modello olandese sono due esempi attuali), oppure lo virtualizza, in quanto si riferisce al lavoratore come ad un soggetto impersonale che deve essere disponibile e adattabile in tutto. b) La visione finalistica (umanistica) osserva il lavoro come azione sociale fra soggetti che stanno in relazioni di scambio. Il lavoro viene considerato bensì come un mezzo, ma dotato di particolari qualità e di una sua dignità, all'interno di un sistema d'azione relazionale più complesso. Il lavoro è, innanzitutto, un diritto-dovere morale della persona e la società dovrebbe valorizzarlo come tale, non sottoponendolo a processi adattativi che gli sono estranei. Il significato del lavoro non è quello di rappresentare il fine dell'uomo, ma, al contrario, quello di manifestarne l'essere (il lavoro è per l'espansione della persona umana, non viceversa). Le relazioni con i percorsi di vita e con le misure di welfare non dovrebbero introdurre nuove alienazioni, ma semmai tendere alla liberazione del lavoro nella forma e nel contenuto di una promozione della soggettività auto- teleologica della persona umana (Wojtyla 1995). Il lavoro viene perciò configurato come "sistema di senso" e come una relazione cruciale per la trama della comunità (Zampetti 1997). Oggigiorno, il discorso sul lavoro e sulla disoccupazione diventa sempre più una questione di confronto fra l'interpretazione secolarizzata (assetto lib/lab basato su garanzie sociali per una libertà vista come "libertà da") e quella umanistica (che rivendica un assetto di giustizia sostanziale in cui la libertà si configuri in senso positivo, come "libertà di", secondo la nota distinzione di Amartya Sen). La "terza via" teorizzata da Anthony Giddens e Tony Blair è un esempio di concezione lib/lab, mentre la dottrina sociale della Chiesa fa parte delle alternative umanistiche. La differenza sta nel fatto che, mentre la "terza via" è un mix di capitalismo (lib) e di lab (socialismo), la dottrina sociale cattolica propone un assetto che trascende sia il liberalismo sia il socialismo.