3.
Cambiamenti attuali nei significati del lavoro e loro impatto sulla
riorganizzazione
della società.
3.1.
La modernità ha creato la disoccupazione attraverso una specifica
cultura secolarizzata-strumentale del lavoro e una struttura sociale
correlata. Vi è una corrispondenza piuttosto stretta fra il concepire
il lavoro come prestazione dell'individuo astratto (che può essere
comperata e venduta su un mercato formalmente libero) e il considerare
la disoccupazione come una necessità funzionale inerente alla divisione
del lavoro (stratificazione sociale). Noi assistiamo oggi alla crisi
di questo assetto, benché esso sia ben lungi dall'essere stato superato.
E ci chiediamo se i problemi storicamente generati in tal modo potranno
essere affrontati ancora con gli strumenti culturali e strutturali
della modernità oppure no. La risposta non può che essere complessa,
ma, in buona sostanza, ritengo che sia tendenzialmente negativa. Siamo
in presenza di nuove interazioni fra modelli culturali e fra strutture
organizzative, mediate dalle interazioni fra agenti-attori sociali,
che cambiano completamente lo scenario del senso e delle funzioni
del lavoro, e quindi della disoccupazione. Gli studi sociali mostrano
tre grandi processi in atto: la fine della divisione tayloriana-fordista
del lavoro sociale, la fine delle metafore culturali che avevano sostenuto
il lavoro industriale, l'emergere di una nuova soggettività del
lavoro. Vediamoli in grande sintesi. Lo schema di analisi che
ho in mente si rifà a quello della morfostasi/morfogenesi (Archer
1995) e si basa su tre grandi processi: i) le modificazioni delle
strutture sociali del lavoro, ii) le modificazioni delle culture del
lavoro, iii) le interazioni fra attori-agenti che portano le strutture
(sociali e culturali) a nuove configurazioni. Questi cambiamenti avvengono
in tre fasi temporali successive (T1), (T2), (T3) analiticamente ed
empiricamente distinte. Fra i processi i), ii), iii) non ci sono,
né possono esserci, rapporti deterministici. Però esistono influenze
reciproche. i) Il processo di morfogenesi delle strutture lavorative
nella organizzazione industriale (divisione sociale del lavoro, secondo
la terminologia marxiana) e nella società (divisione del lavoro sociale,
secondo la terminologia durkheimiana) avviene grossomodo così:
(T1) data una struttura del sistema economico, micro (aziendale) e
macro (societario), modellata sull'organizzazione tayloriana e fordista,
(T2) attraverso interazioni strutturali fra i ruoli e i sistemi organizzativi,
(T3) si passa a nuovi ruoli lavorativi e intrecci organizzativi, e
quindi a nuove professioni, che diventano sempre meno gerarchici,
dipendenti, specializzati, rigidi, e sempre più circolari, autonomi,
adattivi, flessibili. La divisione sociale del lavoro che ne risulta
non è più polarizzata fra capitalista e proletario (come ai tempi
della prima rivoluzione industriale), ovvero stratificata fra colletti
bianchi e blu (come ai tempi della grande organizzazione), ma assume
un carattere reticolare, fatto di intrecci e interdipendenze fra ruoli
lavorativi che sono relativamente più autonomi e allo stesso tempo
più interconnessi che nel passato, all'interno di una vasta rete costituita
da comunicazioni e transazioni altamente "de-centrate".
ii) Le modificazioni culturali seguono un processo morfogenetico in
buona misura analogo, in quanto:
(T1) partendo da un sistema culturale generale ispirato alla metafora
della macchina (Rabinbach 1998),
(T2) attraverso interazioni con nuovi modelli culturali che si ispirano
a valori, rappresentazioni e metafore non macchiniche, che utilizzano
un linguaggio simbolico meno strumentale e più espressivo,
(T3) si passa a nuove modalità di intendere sia il senso del lavoro
(come portatore e risolutore di bisogni soggettivi) sia le identità
professionali (più frammentate ma anche più autonome). La cultura
moderna perde il suo "centro" e si fa altamente "dis-locata"
(Featherstone 1995) e ciò si riflette sul mondo del lavoro. Se la
sfera privata (come quella della famiglia e dei mondi vitali) si de-istituzionalizza
e si frammenta, questo ha enormi ripercussioni anche sulle istituzioni
del lavoro. Il lavoro si generalizza e si differenzia: adesso il termine
generico di lavoro (work) comprende sia l'impiego (employment) sia
l'occupazione (occupation, intesa come professional activity) (EU
Report 1998, p. 45).
iii) Come mutano gli agenti-attori in questi processi di morfogenesi
strutturale e culturale ? Le indagini sulla soddisfazione personale
e sul senso soggettivo del lavoro rivelano come gli agenti-attori
modifichino le strutture e i patterns culturali attraverso
il loro libero agire condizionato. In generale, si può dire che:
(T1) nella situazione di partenza, gli agenti-attori sono inseriti
in un sistema industrialistico che ne condiziona fortemente valori,
desideri, aspettative in senso "meccanico",
(T2) attraverso le loro interazioni, gli agenti-attori creano nuovi
relazionamenti più competitivi, liberi e partecipativi,
(T3) e quindi si passa ad una situazione in cui gli agenti-attori
sono decisamente più esigenti e ri-orientati rispetto all'assetto
precedente; l'agente-attore è meno vincolato di un tempo, più mobile
e allo stesso tempo più insicuro, più inter-attivo, più orientato
alla qualità di vita e alla qualità del lavoro, del prodotto e del
consumo. Trasformazioni oggettive e trasformazioni soggettive del
lavoro, a livello micro (aziendale) così come a livello macro (sistema
economico), interagiscono fra loro e cambiano le caratteristiche quantitative
e qualitative delle attività lavorative (Perret 1995). Gli orientamenti,
gli atteggiamenti e le aspettative si trasformano in almeno tre direzioni
fondamentali:
i) crescono le preferenze per il lavoro autonomo e a-tipico, oppure,
laddove il lavoro è dipendente, aumentano le esigenze di un'autonomia
più ampia, anche se ciò comporta - di fatto - una maggiore inter-dipendenza,
e sovente contiene il pericolo (o maschera l'esistenza di) nuove dipendenze;
ii) crescono le aspettative per un lavoro più creativo;
iii) crescono le preferenze per un rapporto formazione-lavoro e vita-lavoro
più equilibrato nei tempi e nelle transazioni (con minori asimmetrie),
e con passaggi fra l'una e l'altro più reversibili e meno traumatici.
Il lavoro, da prestazione specialistica funzionale alla mera produzione,
si avvicina maggiormente ad un paradigma di azione, soggettivamente
intenzionata, avente una valenza sociale. In breve, la morfogenesi
del lavoro esprime delle tendenze che portano il lavoro nelle seguenti
direzioni: da salariato ad autonomo; da astratto a concreto; da rigido
a flessibile; da strumentale a espressivo; da utile individualmente
a utile socialmente; da misurato in termini di tempo quantitativo
a misurato in termini di tempo qualitativo. Il lavoro non trae più
il suo valore dal monte-ore in cui si esercita (come nell'epoca manifatturiera-industriale
di Marx), ma dalla qualità umana che incorpora (qualità del lavoratore
e del prodotto, inclusa la perfezione tecnica), e dunque da un tempo
qualitativo inteso come attenzione, creatività, sviluppo delle capacità
e delle sensibilità umane. Certamente il tempo quantitativo viene
ridotto sia a causa dei processi di automazione, sia allo scopo di
poterlo distribuire fra più soggetti. Ma il tempo quantitativo si
riduce soprattutto perché il valore del lavoro dipende sempre di più
dal modo di vivere il tempo da parte del soggetto che lo svolge, rispetto
alle condizioni del processo lavorativo e all'utilizzazione del prodotto
finale. Nell'economia dell'informazione e dei servizi, emerge una
nuova "soggettività del lavoro", nel senso che il lavoro
diventa protagonista non già di una società salariata, proletarizzata,
passivizzata, assistita, ma di una società di produttori-e-consumatori
dotati di più elevate esigenze soggettive di auto-realizzazione e
di incidenza sui processi economici. Il criterio-guida di questi cambiamenti
sta nel configurare il lavoro in modo tale da ottenere prodotti qualitativamente
migliori sotto molti aspetti rilevanti, sia dal lato di chi lavora,
sia dal lato di chi utilizza il prodotto del lavoro. Sotto molti aspetti,
si fa strada una nuova antropologia del lavoro, che mette in sinergia
le dimensioni immateriali (lavoro intellettuale) e le dimensioni pratiche
(lavoro manuale), le dimensioni dirigenziali ed esecutive, fra le
quali si instaura una interazione circolare sconosciuta alle epoche
precedenti. Il lavoro può essere più orientato alla globalità della
persona umana, come non era possibile fare (né era socialmente richiesto)
in precedenza.
3.3. Gli attuali
processi di morfogenesi del lavoro hanno enormi riflessi sull'organizzazione
sociale più generale, e in particolare provocano (fig. 2): - la de-istituzionalizzazione
dei percorsi di vita (professionale e non professionale) che in precedenza
si conformavano alla sequenza: formazione ! lavoro ! pensionamento;
diventano possibili periodi alternati, nuove interazioni e reversibilità
tra formazione, occupazione e tempo non lavorativo; il fenomeno esalta
la diversità delle occupazioni, rende più incerti i percorsi e più
critiche le fasi di transizione, ma costituisce anche un pool
di nuovi significati e opportunità di lavoro; il lavoro richiede ora
più spirito imprenditoriale personale e una maggiore capacità di gestione
del rischio; - la fine del "welfare state lavoristico",
cioè del modello di Stato sociale che aveva nel lavoro il referente-base
per l'accesso alle istituzioni del benessere sociale; si deve pensare
ad un progressivo distacco fra lavoro e garanzie relative ai diritti
umani e sociali (Martini 1999); - la fine di una visione del lavoratore
come individuo di un collettivo, e l'emergenza di una visione del
lavoratore quale soggetto personale di formazioni sociali reticolari;
dal linguaggio dei bisogni si passa a quello dei diritti-doveri umani
del lavoratore. La triangolazione fra occupazione, percorsi di vita
(professionali e non) e diritti di welfare tipica dell'assetto
industriale viene radicalmente modificata. Nel nuovo assetto questi
tre poli devono co-rispondere non più al primato (funzionale) del
lavoro, ma ai diritti-doveri del soggetto umano. L'esigenza fondamentale
diventa quella di "personalizzare la persona" del lavoratore
(e quindi le libertà e responsabilità personali, con i rischi annessi).
Se c'è un significato autenticamente umano nel bisogno crescente di
personalizzare il lavoro, questo significato è da vedersi nelle nuove
relazioni (input-output e trade offs) fra queste quattro polarità:
lavoro, percorsi di vita, welfare, persona umana (fig. 2).
La dimensione strumentale (A) non è più il criterio-guida che dà senso
e normazione alle altre relazioni, ma deve esso stesso mettersi in
relazione al modello culturale del soggetto lavoratore (L), che assume
un ruolo-guida nell'assetto post-fordista della società. Più in generale,
ogni termine del discorso assume un carattere relazionale. Il link
lavoro-welfare, ad esempio, cambia perché cambiano le
relazioni fra gli altri termini del discorso, per esempio fra la definizione
di lavoratore e quella di percorsi di vita. Fig. 2- La vecchia e nuova
configurazione delle relazioni fra lavoro e organizzazione sociale.

3.4. Come muta,
allora, il senso odierno della disoccupazione e i modi attraverso cui
i sistemi sociali e culturali cercano di farvi fronte ? La disoccupazione
assume molti volti e molti significati. La fig. 2 può costituire una
mappa per indagare questi significati: si può definire la disoccupazione
in riferimento a ciascuno dei quattro poli (A,G,I,L), cioè disoccupazione
rispettivamente come mancanza di
a) Innanzitutto, bisogna distinguere fra disoccupazione come mancanza
di lavoro dovuta a costrizioni esterne del tutto involontarie (ad esempio
a causa di licenziamento) oppure in quanto dovuta ad esigenze soggettive
del lavoratore in una delle transizioni di vita o delle transazioni
fra lavoro e altre attività (sempre, comunque, con carattere involontario).
Le raccolte di dati statistici ufficiali non sono ancora adeguate a
cogliere queste distinzioni. Si tratta di forme diverse di disoccupazione
che richiedono valutazioni e interventi differenziati.
b) Poi bisogna distinguere fra il vissuto soggettivo della disoccupazione
(il sentirsi esclusi dal lavoro e le conseguenze sociali di ciò) e il
vissuto collettivo (ovvero la rappresentazione collettiva) della disoccupazione:
come sono culturalmente definiti i disoccupati ? Un tempo erano visti
come "oziosi" e "poveri non meritevoli" (questa
caratteristica è ancora forte nei paesi di cultura protestante). Oggi
siamo più inclini non già a disprezzare la vittima, ma ad averne pietà
oppure ad elaborare nuovi diritti, collegati alle diverse situazioni
di disoccupazione (corsi di riqualificazione professionale, servizi
di counselling professionale, assegni di sostegno temporaneo al reddito,
ecc.). Agli effetti del significato del lavoro, decisivo è se questi
diritti vengono riconosciuti come una graziosa concessione dello Stato
sociale oppure invece se, seguendo il principio di sussidiarietà, rappresentano
il frutto di una matura società civile che li elabora e li gestisce
in proprio. In ogni caso, dobbiamo distinguere fra il disoccupato in
senso stretto (involontario) e chi non ha lavoro in quanto lo rifiuta
(si autoesclude dal mondo del lavoro, come i barboni o homeless
volontari, ecc.) e con ciò si sottrae ai diritti-doveri di solidarietà
sociale. Ancora poco sappiamo delle cosiddette "culture del non-lavoro".
c) Poiché, in buona parte dei Paesi industrialmente avanzati, la disoccupazione
non è più sinonimo di povertà, bisogna distinguere fra i disoccupati
poveri e i disoccupati non poveri, perché povertà e disoccupazione sono
il risultato di condizioni e percorsi di vita differenti. In che modo
e misura la configurazione dei sistemi finalizzati a combattere la disoccupazione
(fig. 3) tiene conto di queste distinzioni ? Si direbbe ancora abbastanza
poco, per quanto siano in atto ricerche le quali tentano di selezionare
la figura del "(vero) disoccupato a rischio", cioè a rischio
di esclusione sociale . Siamo interessati, in particolare a capire il
ruolo della cultura (significati del lavoro e della disoccupazione)
nelle modalità di combatterla. Fig. 3- I sistemi di lotta alla disoccupazione:
elementi analitici (e, fra parentesi, empirici).

I rimedi alla disoccupazione:
a. possono essere tutti interni a ciascun sotto-sistema (A,G,I,L): per
esempio si può affidare tutto alle politiche pubbliche (G) oppure al
mercato (A), oppure puntare su norme di scambio sociale (I) o sull'enforcement
di certi stili di vita (L); tale via è la meno valida perché si affida
ad una sola dimensione; b. possono combinare due o più di questi sotto-sistemi;
di fatto, le soluzioni oggi prevalenti prevedono regolazioni politiche
del mercato alla ricerca di un bilanciamento fra garanzie sociali e
libertà di iniziativa; queste soluzioni hanno una validità limitata,
perché non mutano i presupposti normativi e culturali che sono all'origine
della disoccupazione; c. possono tener conto di tutte queste dimensioni,
e delle loro relazioni; nel caso più completo, le regolazioni politiche
del mercato fanno riferimento a norme di scambio fra i soggetti del
lavoro e a modelli culturali negli stili di lavoro e di vita; queste
sono le soluzioni più valide. In linea di principio, osservare la disoccupazione
come fatto culturale che deriva dall'adozione di certi stili di vita
e valutarla come prodotto di particolari regole allocative negli scambi
sociali può essere altrettanto, se non più istruttivo che pensarla semplicemente
come esigenza funzionale del mercato o come fallimento del sistema di
governo politico. 3.5. Si discute molto circa l'esistenza o meno di
un universale "diritto al lavoro" (Archer, Malinvaud eds.
1998). Esso è menzionato nella Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo proclamata nel 1948 dall'ONU ("Ognuno ha diritto
a un lavoro, a scegliere liberamente la sua occupazione, a condizioni
di lavoro giuste e vantaggiose, e ad essere protetto dalla disoccupazione")
e parimenti in molte Costituzioni nazionali e trattati internazionali.
Ma la domanda "esiste un diritto al lavoro ?" solleva ancora
molti dubbi e perplessità. Jon Elster (1988) ha dato voce alla tesi
secondo cui non esiste e non può esistere un "diritto al lavoro"
come diritto positivo. Il suo argomento è che, per dimostrare che un
bene dovrebbe essere dato come diritto, bisognerebbe dimostrare che
è individualmente possibile farlo e che questo bene è tanto importante
da avere la priorità su altri diritti, ad esso contrapposti, che potrebbero
essere creati. Il ragionamento che egli utilizza per verificare questa
possibilità parte da alcune premesse restrittive. Primo, che i diritti
effettivi sono solo quelli legali prodotti da procedure decisionali
democratiche (Elster esclude i diritti naturali umani), e in concreto
il diritto al lavoro è un problema di intersezione fra teoria democratica
e teoria dello Stato assistenziale. Secondo, che il diritto al lavoro
può essere giustificato solo in base alla dimostrazione che esso ha
un valore prioritario diverso da quello del diritto ad avere un reddito,
per il fatto che fornisce vantaggi e risponde a bisogni che vengono
prima del semplice reddito, come la stima di sé e degli altri, contatti
sociali necessari per l'integrazione sociale, una strutturazione non
alienante della vita quotidiana, e l'autorealizzazione che è richiesta
dalla natura umana. Sulla base di queste assunzioni, Elster argomenta
che: primo, il diritto al lavoro non può essere un diritto legale (imposto
per legge) perché ciò non è compatibile con il mercato, basato sui contratti
fra individui; in breve, l'argomento è che la democrazia non può essere
ridotta a Stato assistenziale; secondo, a suo avviso le indagini empiriche
dicono che la natura umana si adatta tanto al lavoro quanto al non-lavoro,
e dunque che i vantaggi primari invocati per giustificare il diritto
(stima di sé, integrazione sociale, ecc.) non sono necessariamente assicurati
dal lavoro. La sua conclusione è che "il diritto al lavoro che
si potrebbe creare non è un diritto che valga la pena di avere".
Personalmente ritengo che questa posizione sia assai discutibile. Si
può essere d'accordo con Elster sul fatto che, concettualmente e praticamente,
il diritto al lavoro non è dello stesso genere dei diritti di welfare
. Si tratta certamente, in primo luogo, di un diritto morale. Però,
il fatto che sia primariamente morale non significa né che sia astratto,
né che non possa essere tradotto in misure economiche e politiche, quindi
anche in norme giuridiche. Il fatto che sia un diritto primariamente
morale non significa che non vi siano soggetti concreti che dovrebbero
osservarlo e farlo osservare. Significa invece, e propriamente, che
si tratta di un diritto umano nel senso sociologico del termine. Alla
luce del mio schema (fig. 3), il limite dell'argomentazione di Elster
sta nel fatto che egli cerca il rimedio alla disoccupazione solo con
strumenti economici (A) e politico- giuridici (G), prescindendo completamente
dai problemi sociali di giustizia (I) e dai modelli culturali, dagli
stili di vita e in ultima analisi dai diritti umani (L), che vengono
resi residuali e puramente derivati dalle esigenze economiche e politico-giuridiche.
Ma, evidentemente, i diritti umani non operano da soli. Essi sono dei
referenti per le altre componenti dei sistemi di lotta alla disoccupazione,
e costituiscono dunque solo un elemento, che deve essere combinato con
le soluzioni negli altri sotto-sistemi. Sotto questa luce, diventa allora
anche più chiaro che sarebbe opportuno parlare di un "dovere di
tutti i soggetti sociali" (imprese, Stato, ecc.) ad assicurare
le condizioni che valorizzano le attività di lavoro, invece che parlare
di un "diritto (soggettivo) al lavoro" come diritto astratto
che non ha un concreto referente empirico responsabile di garantirlo.
Così come non si può parlare di un "diritto soggettivo alla salute",
ma piuttosto di un dovere da parte della società di assicurare tutte
le condizioni ambientali e i servizi sanitari necessari per combattere
la mancanza di salute. Parlare di un diritto al lavoro implica riconoscere
un dovere dei soggetti sociali a valorizzare tutte le relazioni che
creano lavoro e non solo a regolarne gli effetti (dobbiamo ancora comprendere
come si possa fare una regolazione promozionale di tutte le forme
di lavoro). E' qui che ritorna in campo il cleavage fra concezioni
secolarizzate e concezioni umanistiche del lavoro. Ci si deve chiedere
se il sistema del mercato del lavoro possa essere "finalizzato"
a valori e diritti umani, oppure debba essere lasciato alle logiche
evoluzionistiche interne al sistema economico. a) La visione adattativa
(secolarizzata) vede il lavoro come uno strumento per obiettivi che,
pur potendo includere finalità meta-economiche (come la coesione sociale),
sono tuttavia valutati in modo economico. Anche quando si parla di modelli
culturali riferiti alla persona e ai diritti umani, essi sono interpretati
economicamente. In questa linea, il lavoro è solo un'espressione dell'energia
umana, che può e deve essere resa più efficiente con gli strumenti più
adatti, e può tuttavia essere anche evitato se un individuo è proprietario
di un patrimonio o di benefici sufficienti per vivere senza lavorare.
Gran parte delle logiche regolative del lavoro e di lotta alla disoccupazione
seguono un modello lib/lab (Donati 1998) di compromesso fra libertà
e giustizia (o sicurezza) sociale che ha come obiettivo-guida una ulteriore
modernizzazione del lavoro (incluse le forme di lavoro cosiddetto nero,
sommerso, grigio, informale e spesso non legale). E' l'apoteosi del
neo-funzionalismo: "A l'avenir, une capacité d'adaptation accrue
sera la clé du succés" (Commission Européenne 1998, p. 7). Ma che
cosa significa "capacità di adattamento" ? Quando il modello
lib/lab cerca di tener conto del senso del lavoro, ciò a cui
si guarda sono ancora e sempre i meccanismi economici (regole del mercato)
e politici (interventi del welfare state), cosicché il
discorso sui significati del lavoro scompare a livello delle soluzioni
proposte come rimedi della disoccupazione. Vengono coniati nuovi slogan,
che non a caso hanno il carattere di ossìmori, come quello di "rigidità
flessibile" (coniato da Ronald Dore in riferimento al Giappone),
o contrappunti al diritto al lavoro come il "diritto all'ozio"
(Lafargue e Russel) o "diritto all'ozio attivo" (Domenico
De Masi). Il fatto è che l'approccio secolarizzato non sa bene quale
senso umano dare al lavoro. Cosicché questa visione finisce così
per dare al lavoro il carattere di un mero obbligo sociale (il caso
inglese e il modello olandese sono due esempi attuali), oppure lo virtualizza,
in quanto si riferisce al lavoratore come ad un soggetto impersonale
che deve essere disponibile e adattabile in tutto. b) La visione finalistica
(umanistica) osserva il lavoro come azione sociale fra soggetti che
stanno in relazioni di scambio. Il lavoro viene considerato bensì come
un mezzo, ma dotato di particolari qualità e di una sua dignità, all'interno
di un sistema d'azione relazionale più complesso. Il lavoro è, innanzitutto,
un diritto-dovere morale della persona e la società dovrebbe valorizzarlo
come tale, non sottoponendolo a processi adattativi che gli sono estranei.
Il significato del lavoro non è quello di rappresentare il fine dell'uomo,
ma, al contrario, quello di manifestarne l'essere (il lavoro è per l'espansione
della persona umana, non viceversa). Le relazioni con i percorsi di
vita e con le misure di welfare non dovrebbero introdurre nuove
alienazioni, ma semmai tendere alla liberazione del lavoro nella forma
e nel contenuto di una promozione della soggettività auto- teleologica
della persona umana (Wojtyla 1995). Il lavoro viene perciò configurato
come "sistema di senso" e come una relazione cruciale per
la trama della comunità (Zampetti 1997). Oggigiorno, il discorso sul
lavoro e sulla disoccupazione diventa sempre più una questione di confronto
fra l'interpretazione secolarizzata (assetto lib/lab basato su
garanzie sociali per una libertà vista come "libertà da")
e quella umanistica (che rivendica un assetto di giustizia sostanziale
in cui la libertà si configuri in senso positivo, come "libertà
di", secondo la nota distinzione di Amartya Sen). La "terza
via" teorizzata da Anthony Giddens e Tony Blair è un esempio di
concezione lib/lab, mentre la dottrina sociale della Chiesa fa
parte delle alternative umanistiche. La differenza sta nel fatto che,
mentre la "terza via" è un mix di capitalismo (lib)
e di lab (socialismo), la dottrina sociale cattolica propone
un assetto che trascende sia il liberalismo sia il socialismo.
|